Salari reali che calano e lavoro che costa meno. L'anomalia dell'Italia è ora la 'questione redditi'
(costo del lavoro orario nell'Ue28. Fonte: Eurostat)
(di Corrado Chiominto)
(di Corrado Chiominto)
Il ritornello è risuonato nei dibattiti
televisivi a lungo. L’Italia è meno competitiva rispetto agli altri Paesi europei perché ha un alto costo del
lavoro e il cuneo fiscale, cioè la differenza tra quanto paga il datore di
lavoro e quanto finisce concretamente nelle tasche dei dipendenti, è uno dei nodi da
affrontare.
Ma questa fotografia è oramai ingiallita, non racconta più la realtà.
Ma questa fotografia è oramai ingiallita, non racconta più la realtà.
Ora l’anomalia è
un’altra ed è ben descritta da una tabella diffusa dall’Eurostat che ha
calcolato Eurostat nell’ultimo rapporto
sul ‘’costo del lavoro’’ nei 28 Paesi Europei nei primo trimestre del 2016. L’Italia
risulta fanalino di coda, nessuno dietro le spalle, con un calo del costo del lavoro
del 1,5%, mentre l’Europa cresce dell’1,7%. A contribuire a questo dato sono sì
gli ‘sgravi’ contributivi legati al Jobs Act (crollati del 3,9%), ma anche –
unico caso tra i 28 se si eccettua Cipro - ad una riduzione ‘’reale’’ del salario orario.
E’ una novità storica (che però ha faticato a trovare spazio nelle pagine dei
giornali) . Come dire, a fronte della stessa ora di lavoro si guadagna meno.
Il ‘gap’ tra Italia
ed Europa è questa volta evidente e pesa chiaramente sui portafogli degli
italiani. Il nostro Paese vede ridursi il ‘’salario orario’’ di mezzo punto
percentuale, l’Europa in media lo aumenta dell’1,7%: una differenza che vale
quindi, rispetto ad un anno fa, vale 2,2 punti di contrazione del salario
italiano rispetto all’andamento europeo. Si apre insomma una ''questione redditi''. Il calo poi non è uguale, ma si registra in tutti i settori, segno che è proprio il ''valore'' del lavoro che si sta restringendo in Italia: la riduzione del costo nominale orario è stato dell'1,4% nel settore industriale, dello 0,9% nel settore delle costruzioni, dello 0,2% nei servizi.
Certo si sta parlando di ‘’incrementi’’ e non
di valori assoluti.
L’Italia, non va
nascosto, è lontana dai 5 euro l’ora della Romania ma anche dai 43 della
Danimarca. Il costo del lavoro – quindi comprensivo di salario, contributi e
vari balzelli aggiuntivi - si attesta a 28,1 euro l’ora, ma rimane sotto la media 29,5 euro dei Paesi
dell’euro e sotto i 35,1 euro della Francia e i 32,2 euro della Germania. Ma il
‘’trend’’ può essere considerato un termometro dell’andamento di un Paese che
si sta restringendo. Se diminuisce il salario reale, quello che finisce in
busta paga senza considerare il costo dei disoccupati e delle crisi aziendali, certo
è davvero difficile che si possa percepire un miglioramento della società e
possano ripartire i consumi.
Insomma, è un segnale negativissimo.
La riduzione del
salario reale, con il tentativo di scaricare sulle spalle dei lavoratori i
costi della crisi, appare chiaro nelle statistiche europee ma non è una novità per
chi questa realtà la vive ogni giorno sulla propria pelle, per chi si affaccia
sul mercato del lavoro o per chi, dopo anni di occupazione, si trova ora ad
essere travolto dalla coda avvelenata della crisi. Già perché i dati dell’
Eurostat di fatto registrano una contrazione di quella parte mobile dei salari
(straordinari, premi, incentivi, riconoscimenti, festivi, notturni) ma non la
contrazione dello ‘’spazio salariale’’ che passa attraverso tutte le maglie che
le norme consentono. Si parte dallo’utilizzo di stagisti a zero costo, con una
logica di rotazione più che di integrazione, per arrivare a un ricorso ai
voucher per garantire contro i rischi del lavoro aggirando in modo truffaldino
(e in nero) un corretto rapporto lavoro-retribuzione.
Meno sorprendente – ma ugualmente un’anomalia
nel panorama europeo – è il calo del ‘’costo del lavoro’’, cioè della spesa
sostenuta dal datore, registrato in Italia. In questo caso la riduzione è stata
dell’1,5%, ma a pesare moltissimo è stata la componente dovuta ai contributi: i
‘bonus’ che accompagnano le nuove assunzioni hanno fatto crollare del 3,9 per
cento la spesa contributiva.
E’ una scelta voluta per accompagnare la
ripresa occupazionale, è un fatto positivo, che segnala la volontà dello Stato
di ridimensionare la propria ‘manomorta’ sul lavoro. Ma e’ anche una novità che
dovrebbe riorientare il confronto tra governo e parti sociali, ma anche il
confronto per il nuovo modello contrattuale, che sembra partire in salita. Non
ci sono più alibi per un mondo imprenditoriale che invece di puntare su
innovazione di prodotto e su migliori standard qualitativi, pone tutta l’attenzione
ad una riduzione dei costi, tagliando lì dove – a causa dell’alta
disoccupazione – è più facile tagliare: nella busta paga. E la crescita del
Paese si misurerà proprio, ad anche, dalla capacità che la classe
imprenditoriale sarà dimostrare nello scommettere sulla forza vita dei propri
lavoratori.
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