Contratti a termine, donne, autonomi. Cambia il mondo del lavoro, non sempre in meglio





   Contratti sempre più intermittenti, ma più donne al lavoro. E riduzione, al minimo storico, dei lavoratori indipendenti, cioè degli autonomi – commercianti, artigiani, professionisti - che da sempre erano una delle caratteristiche italiane.

    Il mondo del lavoro cambia. Si adegua al contesto. Gli ultimi dati dell’Istat lo raccontano bene. Difficile dire che sia meglio. Di certo la trasformazione è profonda, sembra una mutazione genetica del Dna dell’occupazione. Colpa delle crisi. Colpa delle regole che cambiano. Colpa di tutti e questi elementi messi insieme.

     Le ultime statistiche non descrivono un mondo senza problemi.  Dopo anni di crisi profonda, con perdite di posti di lavoro a iosa si rafforzano certamente i segnali di inversione di tendenza. Ma non si torna al passato. Tutto appare più precario. Chi vuole leggere i dati positivamente, parla di un processo di europeizzazione dell’occupazione italiana. Ecco cosa accade davvero.

    Il lavoro fisso diventa sempre più una chimera.  E’ il dato di fondo principale. Il numero dei dipendenti con contratti a termine ha raggiunto quota 2,69 milioni: è il valore più alto dal 1992, cioè da quando sono disponibili le serie storiche dell’Istat su questo aspetto.  Sbagliato quindi rivendicare l’aumento occupazionale – che pure c’è stato rispetto ai periodi di contrazione dell’economia – come uno dei successi del Jobs act, che invece non puntava certo alla creazione di un lavoro intermittente. Meno indicativo è il dato di giugno – il mese in cui parte l’intero comparto del turismo in Italia – che vede 37 mila contratti a termine, trainare il numero degli occupati complessivi (che sono stati solo 23mila)

   Il record della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro è certamente un segnale importante di cambiamento della società. Il dato Istat: indica che il tasso di occupazione delle donne (15-64 anni, cioè l’età da lavoro) a giugno ha raggiunto il 48,8%; si tratta del valore più alto dall'avvio delle serie storiche, ovvero almeno dal 1977. Ma, a leggere un po’ il dato, l’aspetto positivo si riduce un po’.  L’aumento di partecipazione è dovuto in parte alla crescita dell’età pensionabile imposta dalla riforma Fornero mentre l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro appare ancora difficile. Se si guarda il tasso di inattività per la stessa fascia d’età, ad esempio, si scopre che per le donne è al 44,4% per gli uomini al 26,3%.

   C’è poi un nodo vero che riguarda il rapporto tra il lavoro e le donne, cioè la qualità dell’offerta del lavoro.  Il riferimento non è solo alle tipologie del lavoro ma anche al fatto che, a parità di impiego, spesso i salari percepiti dalle donne sono più bassi. Gli ultimi dati dell’Ocse, pubblicati lo scorso 8 marzo, indicano un gap medio del 5,6%.  Secondo le statistiche Eurostat l’Italia è ultima in Europa per numero di donne manager e secondo per la maggiore differenza salariale rispetto agli uomini.  Secondo la Ong Oxfam  - ma i dati sono mondiali – il gap uomo-donne sui salari si sta riducendo ma in modo talmente lento che serviranno 170 anni affinchè le donne possano raggiungere gli stessi livelli retributivi degli uomini.

   L’ultimo aspetto, che segna un deciso cambio, è quello dei lavoratori autonomi, scesi al minimo dall’inizio della serie storica stilata dall’Istat, cioè  dal 1992. Il ‘’popolo delle partite Iva’’ si attesta ora a quota 5 milioni 298 mila: a giugno sono usciti dal mercato degli ‘’autonomi’’ circa 13 mila lavoratori, mentre a livello annuo la contrazione si attesta a 220 mila. Il trend risente proprio di un cambio dell’assetto produttivo italiano, con una contrazione sempre più forte di piccole attività produttive, come i negozi o le botteghe degli artigiani.  L’incertezza – secondo Stefano Patriarca che lavora nel team degli economisti di Palazzo Chigi è dovuto certamente anche all’incertezza legata ai problemi fiscali e contributivi.

     E anche questa non è una buona notizia.  


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