L’addio ai monti di Fiat. Sede in Olanda e tasse a Londra, ma influenza su Italia rimarrà

                          (L'opera e' di Ron Arad ospitata fino al marzo scorso in una mostra alla Pinacoteca Agnelli)




    L’Addio ai monti per Fiat e’ fissato per venerdì  1 agosto. L'assemblea degli azionisti è chiamata a fare da testimone al matrimonio con Chrysler (''giuro di esserti fedele sempre...'').  La Fabbrica Italiana Automobili Torino cambierà nome e accento.  Si trasformerà in Fiat Chrysler Automobiles, la nuova holding dall’acronimo impronunciabile in italiano. E non ci sarà bisogno di scomodare il lirico e un po elegiaco passo di manzoniana memoria, nel quale si racconta il difficile distacco dalla terra natia. La nuova società - con forte determinazione e decisa ottimizzazione del proprio assetto fiscale - porterà la sede sociale in Olanda, quella fiscale a Londra e il proprio cuore finanziario a Wall Street.

       Con l’Italia rimarrà un fortissimo cordone ombelicale. E non solo perché non si può cancellare la storia. Ci sono ancora 86 mila dipendenti che lavorano nelle diverse regioni ma soprattutto c’è ’influenza che il gruppo ha e continua ad avere nel Belpaese. Che poi,  forse, alle imprese multinazionali così bello non appare.  Impossibile non notare – ad esempio - che anche altre società hanno fatto la scelta della Fiat, differenziando le sedi per ottimizzare benefici organizzativi e carichi fiscali. Basta pensare che la Gtech, cioe’ la nuova Lottomatica, dopo la fusione con l’americana Igt avra’ sede in Gran Bretagna.

    L’influenza sull’Italia della nuova Fiat – scusate ma mi pare possibile chiamarla altrimenti – rimane decisiva. Nonostante abbia tagliato molti dei ‘ponti’ che l’uniscono al Paese. Possibile immaginare un’ altra  società che presenta il proprio prodotto al governo, direttamente a Palazzo Chigi, come Marchionne ed Elkann hanno fatto nuovamente anche con Matteo Renzi?

     Ma l’impatto di Fiat sul Paese è ancora più sottile. Basta pensare alle modalità con le quali Marchionne ha chiuso le vecchie società, creando le newco, licenziando e riassumento i dipendenti con nuovi contratti svincolati dagli accordi nazionali di categoria.  La filosofia è: chi non può delocalizzare  - o non può farlo del tutto – deve avere nuovi standard lavorativi, anche economici. E’ una strada che hanno poi seguito in molti, complice la crisi. La Fiat ha fatto però da battistrada, anche rompendo con la tradizione, come quella di abbandonare Confindustria, l’associazione degli industriali italiani che per lungo tempo si è identificata proprio con il potere degli Agnelli.

        C’e’ poi il tema delle tasse. Il trasferimento della sede fiscale a Londra non è certo una scelta neutrale per il Paese. Dovesse fare da apripista per le multinazionali italiane sarebbe una bastonata per l’erario. Certo alcune tasse non varcano il confine italiano: si tratta di quelle sul reddito per il personale italiano o l’Irap sulla produzione fatta nel territorio. La Fiat ha giurato che lo spostamento della sede legale in Gran Bretagna "non avra' effetti sull'imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società  del Gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività".

         Ma sarà così? Dal 2010 il Regno unito ha riformato il fisco, riducendo le aliquote sui redditi esteri e introducendo forti esenzioni su dividendi e capital gain, con vantaggi anche sulle royalties dei brevetti. La Fiat, però, come ha spiegato l’ex direttore delle Entrate Attilio Beferà dovrà pagare una Exit tax. E’ stata introdotta in Italia dal 2012 e prevede che si paghi l’Ires (al 27,5%) sul valore che avranno al momento del trasferimento fuori dai confini dei beni aziendali come marchi, brevetti, avviamento, ecc.

     Per l’Italia, però, i due veri nodi sono gli investimenti e l’occupazione che la nuova Fiat garantirà nel Paese. Il cosiddetto Piano Italia e’ stato travolto dalla crisi. Rimaneggiato si è quasi trasformato in un boomerang per l’immagine del gruppo, oscurato solo dall’offensiva americana su Chrysler.

      I conti sul fronte lavoro sono facili. Il gruppo, che nel 1999 contava 221 mila occupati in tutto il mondo, ora – nonostante la fusione con la Chrysler, ne ha ‘’solo’’ 215 mila, 86 mila dei quali in Italia. Due stabilimenti sono stati chiusi: Termini Imerese e Irisbus nella Valle dell’Ufita in provincia di Avellino. Molti stabilimenti sono ancora nel bel mezzo di una transizione. I capannoni di Mirafiori, che una volta erano il simbolo produttivo del gruppo, sono ora in gran parte trasformati in un centro direzionale dove sono appena stati trasferiti 1.500 dipendenti. In alcuni c’e’ la centrale del latte. Il nocciolo produttivo e’ dimagritissimo e attende di diventare, insieme a Gurgliasco, la fabbrica  dove verranno fabbricate le auto di lusso del gruppo: nascerà qui il nuovo Suv della Maserati.

    Già, perche questa e’ un’altra novità. La Fiat, che aveva la sua forza nei segmenti delle utilitarie, dovrà attendere il 2016 per vedere una nuova vettura di classe B. Punta invece sulle auto di lusso, più costose tanto che le Maserati prodotte, che fino a 3 anni fa erano 6 mila, sono salite a 15.400 nel 2013 e quest’anno toccheranno quota 28 mila. Il target è fissato a 75 mila veicoli nel 2018.

     Alla fine la Fiat sarà irriconoscibile. Non più l’azienda italiana per eccellenza, quella dell’auto per tutti, la mitica Cinquecento imbottita all’inverosimile per raggiungere di domenica il mare. La nuova società sarà  italo-americana, avra’ sede in Olanda, pagherà le tasse a Londra, quoterà le azioni a New York e punterà sulle più redditizie auto di lusso. Una rivoluzione.

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