Obiettivo crescita. Calo tasse costa, anche riforma P.A incide sul Pil. Soprattutto se condivisa


   (di Corrado Chiominto)

    Per la crescita del Pil non ci sono soluzioni magiche. E le ricette possono essere diverse. Il calo delle tasse spinge l’economia attraverso un’aumento dei redditi e dei consumi. Ma costa. Gli investimenti in infrastrutture consentono di costruire il futuro ma hanno il difetto di creare un volano solo in alcuni settori se non accompagnati da una politica industriale che - all’impegno iniziale per la realizzazione delle opere - faccia seguire uno sviluppo concreto che porti al loro utilizzo. Ma anche questo strumento costa, più che il calo delle tasse.
     
       L’altra leva che può spingere l’economia è l’efficienza della macchina amministrativa. Che ha un doppio beneficio. Da una parte consente di risparmiare sulla spesa, eliminando sprechi e diseconomie. Dall’altra consente di costruire la base e facilitare le procedure che servono ad un Paese per svilupparsi. Non a caso il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, e dei servizi che offrono, sono alla base di tutte le principali statistiche internazionali sulla competitività: dalla doing business (ecco il rapporto) della Banca Mondiale all’indice di competitività del World Economic Forum (eccolo).

      Del resto è intuitivo il fatto che l’efficienza della macchina burocratica è anche il presupposto per lo sviluppo di un Paese. Ma, al di la della parole, questa si traduce concretamente in numeri: consente di dare una spinta reale al Pil. Poiché la crescita - volenti o nolenti - è uno dei mali dell’Italia, ecco che la riforma della pubblica amministrazione è uno snodo fondamentale per il rilancio anche della nostra economia. L'ultimo Programma Nazionale delle Riforme allegato al Def stilato dal governo nel 2016 prevede un impatto positivo di 1,2 punti sul Pil dalle riforme della pubblica amministrazione, un valore inferiore solo alle riforme del mercato del lavoro e agli investimenti sull'istruzione. (Ecco il documento)

    E’ in questo contesto che vanno inserite le novità previste dalla riforma Madia. Novità importanti. Per molte ragioni. 1) perché è una riforma complessiva, che non si limita solo agli aspetti più giornalistici, come la lotta agli assenteisti, ma riorganizza la macchina, burocratizzandola. 2) perché ha inciso su alcuni bubboni di vecchia data - dall’assenteismo alla visite fiscali. 3) perché,  
contrariamente all’orientamento dominante che vuole una contrapposizione con i sindacati, l’attuazione concreta si sta sviluppando attraverso un confronto reale con le forze sociali e una riforma condivisa penetra più profondamente nel gangli organizzativi.

     Ma quali norme potrebbero incidere di più. Il licenziamento degli assenteisti e dei furbetti del cartellino è certo una norma in grado di rappresentare un segnale mediatico a chi crea inefficienza, così come l’arrivo del pin unico per accedere on line ai servizi della pubblica amministrazione appare come un messaggio di innovazione al passo con i tempi. 

     Ma ad incidere concretamente potrebbero essere misure che hanno un impatto mediatico inferiore: è il caso della riforma dei dirigenti - che ne modifica l’inamovibilità - dell’introduzione (in accordo con i sindacati) di criteri di valutazione dei lavoratori e della regolamentazione tramite ‘’contratto’’ delle norme che regolano il lavoro del pubblico impiego.

     L’effetto complessivo è quello di una sburocratizzazione. Che certo arriverà in modo molto sfumato, nonostante gli annunci roboanti, sulle società controllate dagli enti locali, che sono una delle mangiatoie della politica. La loro chiusura e lo snellimento dei Cda con l’arrivo dell’amministratore unico sono stati ammorbiditi nel testo del decreto finale appena approvato, con un allungamento dei tempi e soprattutto con possibilità di derogare alle norme base. Una segnale inequivocabile: le elezioni si avvicinano a passi da gigante e incidere sui costi della politica diventa più difficile.
  

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