Taglio Irap. Il lavoro come costo e non come sviluppo è da fisco che para, ma che non tira in porta




   (di Corrado Chiominto)

    “Ora non hanno più alibi”. Così il presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe detto ai suoi annunciando agli imprenditori l’arrivo di una massiccia riduzione dell’Irap (6,5 miliardi), finalizzata a sterilizzare all’interno dell’imposta il costo del lavoro, e la cancellazione per tre anni dei contributi sui neoassunti. Difficile però che si riesca a rimpire d'acqua il secchio bucato di un'impresa che chiede sempre e poco da. Certo non si può sottovalutare l'impatto di alleggerimenti fiscali ''miliardari''. Non amo poi il pessimismo d'accatto che talvolta sembra caratterizzare il dibattito provinciale dell'italietta da talk show fatti con lo stampino.

    Ma dietro la mossa del premier vedo l'uso del fisco come una straordinaria arma di consenso, più che quello di utilizzo dell'alleggerimento di tasse per per sollecitare ‘’comportamenti’’ e scelte in grado di promuovere politiche attive. 

     L’idea di mettere una posta da 6,5 miliardi per abbattere l’Irap tradisce però una logica da fisco ‘’difensivo’’, non da fisco ‘’d’attacco’’. E' un fisco che si limita a parare, ma non tira in porta. Come oramai accade da molti anni, l’imprenditoria italiana incassa così una quota importante di riduzione fiscale che però non la spingerà a correggere le anomalie che da sempre caratterizzano il sistema produttivo italiano. Ne' la spingerà a fare assunzioni. Torno a ripeterlo: sarà come mettere l’acqua in un secchio bucato (leggi cosa ho scritto nel blog il 5 agosto, sulla scelta tra Bonus 80 euro e Irap)

     La spiegazione è forse un po’ tecnica, ma poi non è tanto difficile da comprendere. A differenza di quanto scrivono in molti, l’Irap non tassa il lavoro, bensì evita che il suo ‘’costo’’ sia sottratto dall’imponibile che viene tassato, a differenza di quanto accade con le imposte sul reddito. Queste ultime – a farla breve – tassano il guadagno che e’ rappresentato dal ricavo meno i costi (tra questi quelli del lavoro, ma anche gli indebitamenti ecc.). L’Irap, invece, nasce per evitare l’anomalia tutta italiana in base alla quale molte imprese alla fine dei conti, tra incassi e costi, non guadagnano. Anzi, sono in perdita. Così – per sostituire 6 imposte rilevanti del passato (tra le quali anche quella sul patrimonio netto delle imprese, l’Ilor, l’Iciap e la tassa sulla salute – si pensò di tassare non il guadagno, ma il fatturato, secondo la logica che chi fattura molto qualcosa deve pur guadagnare. L’aliquota applicata è molto bassa (il 3,8% in molti casi) ma si applica sul fatturato dal quale non si scontano né il costo del lavoro, né quello dell’indebitamento (un vero affronto in un Paese banco centrico). L’effetto discorsivo, rispetto al mondo del lavoro, è che a parità di fatturato pagano la stessa tassa, senza differenze, imprese altamente tecnologiche e imprese con molti dipendenti.

      Ora l’arrivo di uno ‘’sconto’’ sulla componente lavoro dell’Irap servirà a promuovere innovazione? Certamente no. Servirà a favorire la crescita patrimoniale delle imprese? Certamente no. Servirà – e questa e’ forse la domanda più importante di tutte – a creare nuovo lavoro? Dubito fortemente.

    Il nodo è semplice: anche questa volta si ragiona del lavoro come se fosse un ‘’costo’’ da scaricare e non un asset di sviluppo, un volano per crescere. Non si spinge l’industria ad essere virtuosa.
  Gli imprenditori italiani sono pigri in ricerca e sviluppo, non fanno investimenti? Sarebbe stato meglio detassare l’impegno economico finalizzato a studiare nuovi prodotti e ad innovare processi.
   Hanno scarsa capitalizzazione? Il fisco potrebbe essere usato a questo scopo (ma le imprese già hanno l’Ace, un meccanismo fiscale che a questo dovrebbe servire).
   Devono formare poli produttivi per aumentare le proprie dimensioni sul mercato? Sarebbe stato meglio mettere a punto una politica industriale che promuova la crescita di  specifici settori del made in Italy.
    Devono tornare ad assumere in modo stabile e non precario? Allora l’incentivo non può essere che quello di accompagnare le assunzioni. Se si guarda agli annunci finora fatti, una cosa e’ mettere 1,5 miliardi per detassare in 3 anni i contributi sui neoassunti, una cosa sarebbe stato aggiungere altri 6,5 miliardi di risorse, invece di buttarle sull’Irap. Allora si che sarebbe stata una vera frustata pro-occupazione e il fisco sarebbe stato utilizzato, senza tante scorciatoie e senza fare regali agli imprenditori, come una vera arma di rilancio del mercato del lavoro in Italia.

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