L'effetto placebo del jobs act. Lo schiocco delle dita non basta, cosa serve per crescere davvero
(di Corrado Chiominto)
"Caro
imprenditore, assumi a tempo indeterminato? Ti tolgo l'articolo 18, i
contributi e la
componente lavoro
dall'Irap. Mammamia, cosa vuoi di piu'. Ti tolgo ogni alibi e ti do una grande
occasione". (Matteo Renzi, 15 ottobre 2014, presentazione della legge
di Stabilità, con 1,9 miliardi di sgravi per le imprese che assumono)
“Dopo la forte
crescita registrata nel mese di aprile (+0,6%) e il calo nel mese di maggio
(-0,3%), a giugno 2015 gli occupati diminuiscono dello 0,1% (-22 mila) rispetto
al mese precedente. Il tasso di occupazione, pari al 55,8%, cala nell'ultimo
mese di 0,1 punti percentuali. Rispetto a giugno 2014, l'occupazione è in
calo dello 0,2% (-40 mila), mentre il tasso di occupazione rimane invariato”.
(Istat, 31 luglio 2015, sono le prime righe del comunicato sulla rilevazione dioccupati e disoccupati).
Il lavoro non
parte. Una sinesi potrebbe essere questa: non è un problema di gufi, la gente
ci crede, spera di trovare un’occupazione, ma il lavoro non c’è. Non basta una legge. Non serve uno schiocco di dita.
Il Jobs Act ha
avuto al momento solo un effetto placebo. Una forte fetta di scoraggiati è tornata
a credere che trovare occupazione sia possibile. A giugno, rispetto ad un anno
prima, sono 131 mila le persone che sono sono affacciate sul mercato del
lavoro, abbandonando la classificazione di ‘’inattivi’’. Ma hanno trovato
davanti un muro insormontabile. Non solo non si sono creati nuovi posti di
lavoro, ma questi sono addirittura diminuiti. Dopo aver toccato il fondo della
crisi non c’è stato nemmeno quello che gli investitori borsistici, quando il
listino tocca un minimo, chiamano cinicamente il rimbalzo del gatto morto.
Il numero degli occupati, che nell’aprile del
2008 segnava il record di 23,2 milioni, ruota ora attorno a quota 22,3 milioni:
22 milioni 297 mila a giugno. Si sono persi per strada quasi un milione di
posti di lavoro. E i disoccupati, che si attestavano a 1,7 milioni, sono ora un
esercito di 3,2 milioni. Certo, il modello matematico usato dal Fondo Monetario
Internazionale con contempla gli effetti delle riforme, ma certo non da un’indicazione
incoraggiante quando dice che ci vorranno 20 anni all’Italia per ritornare sulfronte del lavoro ai livelli pre-crisi. Per non parlare dei giovani, la disoccupazione giovanile è tornata ai livelli record del 1977 (e con un brivido penso che è l stagione che ha dato vita al terrorismo)
Eppure il governo ha
investito e promette di investire molto sul fronte del lavoro. Il Corriere
della Sera ha calcolato 40 miliardi tra il 2014 e il 2019. Di certo quest’anno gli industriali hanno
ottenuto non solo la possibilità di assumere senza versare un solo soldo di
contributi previdenziali (ma questo vale solo per quest’anno, dal 2016 – dice il
tam tam governativo – non ci sono soldi e si cambia) ma hanno anche vinto una
storica battaglia sull’Irap, l’odiata imposta che tassa la produzione e non i
guadagni, così che non può essere evasa con artifici contabili abbatti-utili. Beh,
dall’Irap è ora possibile togliere il costo del lavoro, che oggettivamente
erano uno dei fardelli dell’imposta: uno sconto che vale moltissimo, una decina
di miliardi. Era una cavallo di battaglia di Berlusconi. Renzi l'ha fatto, e forse è effettivamente una scelta di sinistra.
Ma il nodo non
sono gli sconti fiscali. Le imprese sono un cavallo assetato, ma – ovviamente con
le debite eccezioni – non sembrano aver voglia di tornare a correre. Sono un secchio
bucato: inutile versarci dentro soldi, l’acqua esce dai buci. Non scommettono,
non giocano sul futuro. Sembra un abito mentale che forse deriva dagli anni in cui, con
la nostra liretta, era possibile fare le svalutazioni competitive, rendendo i nostri
prodotti convenienti per l’export. Quello che si limitano a fare gli imrpenditori sono in gran parte scelte di
convenienza: la conversione di vecchi contratti non conveniente nei nuovi Jobs-Act.
Incassano sconti, non sfidano il futuro.
I diritti,
conquistati nel passato, ora messi sul piatto della sfida di un moderno mercato
del lavoro e ridotti drasticamente hanno al momento solo creato maggiore
precarietà lavorativa. Il lavoro continua ad essere meno certo. E l’incertezza
non è la buona base per una crescita dei consumi. E quindi dell’Economia. E
quindi – in un avvitamento pericoloso – dell’occupazione.
Eppure, forse, un
modo per crescere c’è. Sarebbe necessario fare progetti di sviluppo di settori
che possono essere considerati un ‘volano’ per l’economia. Nel passato si
lanciava la rottamazione delle auto per dare impulso all’industria
automobilistica, ora – con uno sguardo un po’ più lungo – si potrebbe
scommettere sul fronte dell’economia-verde, come fanno grandi stati, Usa in
testa. Oppure, più tradizionalmente potenziare, e non danneggiare, degli assett
che l’Italia ha e gli altri no: il turismo, l’agricoltura, l’industria
alimentare. Non c’ bisogno di soldi. O meglio non c’e’ bisogno solo di soldi.
Bisogna uscire da un approccio normativo della crescita. Con nuove leggi non si
cresce. Servono invece la creazione di reti di servizi, la promozione di
aggregatori di idee, un ambiente più favorevole ad investimenti (veri) per ricerca e sviluppo, una strategia di
marketing per alcuni settori e per il Paese.
Certo come
ignorare che sulle prime pagine dei giornali in questo periodo hanno
campeggiato le notizie sui disservizi di Fiumicino, lo sciopero di Pompei e le
immagini – talvolta forzate e ricercate – di una Roma umiliata dalla politica. Bisognerebbe
allora far prevalere il valore di ‘’comunità’’ rispetto a quello di ‘’interesse
personale’’ (che vale per Renzi ma anche per ogni singolo cittadino,
lavoratore, utente…). Solo così l’Italia può dimostare che non è solo un aggregato di brutte notizie. E magari ripartire.
Commenti
Posta un commento