La crescita e la guerra dei salari. Dare valore al lavoro meglio del salario minimo
La certezza è matematica. Se il
reddito disponibile cala, si ridurranno ancora i consumi e non sarà possibile
rilanciare la crescita in Italia. Ecco perchè l’idea di introdurre un ‘’salario
minimo’’, scardinando l’attuale sistema dei contratti collettivi nazionali,
potrebbe mettere a rischio l’obiettivo primario che si è posto il governo
Renzi: quello di rilanciare lo sviluppo.
A mettere sul tavolo l’idea
di un salario minimo è stato il vice ministro all’Economia, Enrico Morando che
parlando ai manager presenti per l’incontro primaverile di Cernobbio ha
spiegato che l’arrivo di questa misura sarebbe accompagnato da due norme-corollario:
la possibilità di derogare ai contratti nazionali di lavoro (tranne per le
norme previste per legge) e la previsione di sanzioni per chi non lo rispetta questi
pagamenti minimi che può arrivare al fino al tintinnare di manette, al carcere.
E’ chiaro che se arriva un
salario minimo che può derogare ai contratti nazionali è per prevedere soglie
ancora più basse di retribuzioni. Gli effetti, nefasti, sarebbero molti: si
scardinerebbe completamente l’attuale sistema retributivo - un tentativo sul
quale si sono esercitati già in molti nel recente passato –; si relativizzerebbe l’importanza dei sindacati
nazionali, proprio in un momento nel quale la crisi della politica
richiederebbe un maggior ruolo per i corpi intermedi di rappresentanza; si darebbe
spazio all’Italia senza-regole che da sempre è la palude nella quale si muove
bene solo chi è più forte. Magari si riuscirebbe a far emergere qualche lavoratore
in nero, ma il contrappasso sarebbe la creazione di un nuovo zoccolo duro di precariato,
con la riduzione di reddito e la crescita di incertezze che questo comporta.
La tendenza – è vero - è già questa. A livello globale, nella geopolitica del lavoro, è in corso un riequilibrio tra i Paesi emergenti
dove il salario è stracciato (così come le regole per la sicurezza e l’ambiente)e
le aree del pianeta – la vecchia Europa prima di tutti – nelle quali la
crescita dei salari e delle tutele dei lavoratori sono il risultato di decenni
di conquiste sindacali.
Qualcuno ha
risposto a questa guerra dei redditi con soluzioni fai-da-te. E’ il caso della
Fiat di Marchionne che certo, impegnata nella sfida globale che si gioca anche
sui salari, non ha aspettato nessuno: non il governo, ma nemmeno gli altri
imprenditori. E’ uscita da Confindustria e creato delle new.co, nuove società
dove riassumere con nuovi contratti – depotenziati nei diritti e nel salario –
senza nemmeno più la necessità di derogare a contratti nazionali, firmati da un’organizzazione
(Confindustria per appunto) alla quale non appartiene più. C’è poi chi ha
risposto alla crisi con il far west dei contratti a tempo, delle false partite
Iva, degli stage ruba-futuro.
Per uscire dalla
crisi non c’è altra soluzione che rompere l’area di precariato che si è creata
in Italia. Solo nel 2012, ad esempio, l’Istat ha calcolato una contrazione
dell’1,9 per cento dei redditi, a fronte di un aumento del 3% dei prezzi. E
certo la soluzione non può essere l’inseguimento della germania sulla strada
dei Mini-Job, che hanno creato lavoro a basso costo. Una novità che – secondo alcuni
osservatori - certo non ha portato fortuna politica al rosso-verde Schroeder,
che ha dovuto cedere il passo alla Merkel
L’unico modo per rilanciare la
crescita è rovesciare questa logica di avvitamento sociale, tornare a dare il
giusto valore al lavoro. Solo così si può dare dignità al lavoratore e certezza
alle famiglie. Solo così, mi sembra un facile vaticinio, si potrà tornare a
crescere.
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